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mercoledì 30 giugno 2021

Diagnosi e cure: la situazione debitoria delle PMI post Covid e qualche suggerimento per migliorare la situazione (già pubblicato su PMI)

Il contagio virale ha determinato il contagio economico per vie delle chiusure richieste dalla pandemia, ma ora che ci si avvia verso la ripresa, occorre quantificare i danni e indirizzare efficacemente la fase di recupero per limitare danni permanenti alle strutture produttive. Il Governo ha messo in atto una serie di misure quali i fondi di garanzia per le PMI e “Garanzia Italia”, nonché le moratorie per il rimborso dei prestiti e dei relativi interessi. Più in particolare, Il decreto Cura Italia (d.l. 18/2020) ha stabilito la gratuità delle operazioni del Fondo di Garanzia per le PMI e l’estensione dell’importo massimo garantito per ogni impresa da 2,5 a 5 milioni di euro. Il decreto “Liquidità” (d.l. 23/2020) ha previsto l’erogazione automatica per i prestiti fino a 30.000 euro e un ampliamento della platea dei destinatari, con una stima di garanzie erogate per 155 miliardi, di cui due terzi stanziati alle imprese di piccola dimensione. Il decreto “Liquidità” ha anche istituito “Garanzia Italia”, un secondo fondo di garanzie gestito da SACE S.p.A. con un massimale di 200 miliardi, autorizzato a fornire garanzie anche a imprese di grandi dimensioni. In questo caso sono state erogate garanzie pari a 22,8 miliardi di euro. Quindi, complessivamente, le garanzie sui prestiti concesse dallo Stato hanno ora raggiunto i 177,8 miliardi (pari al 10,7 per cento del PIL). Il decreto Cura Italia ha introdotto una serie di moratorie, relative a vari tipi di esposizioni debitorie, con un termine che è stato esteso con il decreto “Agosto” (articolo 65 d.l. 104/2020) e con la legge di Bilancio 2021, al 30 giugno 2021. Ad aprile 2021 si stima che fossero ancora attive 158 miliardi di moratorie, con un forte calo rispetto a marzo probabilmente dovuto al fatto che molte imprese, siano riuscite a saldare il dovuto grazie ad un miglioramento del cash flow. Questi interventi di sostegno hanno evitato il fallimento di imprese le cui difficoltà erano temporanee, riducendo la percentuale di aziende in fabbisogno di liquidità dal 19,4 al 13,6 per cento (dati Bankitalia), con una riduzione delle istanze di fallimento di circa un terzo (3.700 unità, dati Infocamere) rispetto al 2019. Ma restano profonde cicatrici nel tessuto industriale italiano, dove, secondo una stima del CERVED i bilanci delle aziende potrebbero presentare un livello di indebitamento pari a 937 mld. di euro, con una crescita di circa 90 mld. rispetto alla fine del 2019. Ed è una situazione certo migliorata rispetto alle previsioni fatte in piena pandemia, nella primavera 2020, quando non era ancora chiaro l’esito della vicenda pandemica; ciononostante attualmente si stima che la quota di imprese ad alto rischio di default si attesti al 19%, per un totale di circa 120.000 aziende. Per queste aziende a rischio, l’indebitamento si è più che raddoppiato, passando da 63 mld. a 135 mld. di euro; e la numerosità delle aziende a rischio è molto più alta tra le microimprese che non tra le grandi aziende, anche se fra queste ultime si concentra la maggior quantità di debito rischioso. Fra i settori maggiormente colpiti, si evidenzia il settore delle fiere e convegni con il 95% dei debiti a rischio default, i club sportivi con l’80%, le agenzie di viaggio (79%), i negozi di abbigliamento (48%). L’effetto combinato del calo dei profitti e dell’aumento dell’indebitamento indebolisce la struttura patrimoniale delle imprese, peggiora il merito creditizio e accresce i rischi di insolvenza. Le imprese italiane si sono dotate di una buona capitalizzazione nell’ultimo decennio, ma ora i rischi a medio termine sono aumentati, in particolare per i settori con le prospettive di redditività più incerte. Nonostante le misure adottate dal governo a partire da marzo 2020 siano riuscite a limitare i problemi di solvibilità nel breve termine, in futuro saranno necessari degli interventi volti a favorire la patrimonializzazione delle imprese. In tal senso, Banca d’Italia ha recentemente lanciato alcune proposte: • incentivare il rafforzamento patrimoniale attraverso la raccolta di capitali privati; • favorire la rapidità e l’efficacia dei processi di ristrutturazione del debito per le imprese con prospettive di rilancio, in modo da garantire la continuità delle attività aziendali; • migliorare le procedure per la gestione delle crisi d’impresa. Ma più in generale si stima che, per effetto di questi andamenti, gli anni di cash flow necessari a ripagare il debito per il settore dei servizi siano raddoppiati tra il 2021 e il 2019. In particolare, per il commercio all’ingrosso si prevede un aumento a 11,5 anni e per l’alloggio e ristorazione a 5,9. Anche nel manifatturiero si stima un raddoppio del rapporto tra debito e cash flow, con il comparto metallurgico che passa da 3,3 (anni) a 8,7. Per questo l’altro versante su cui occorre operare è quello del miglioramento del cash flow, ottenibile andando a migliorare la produttività aziendale. I prolungati lockdown hanno costretto molte aziende ad investire nell’informatizzazione per raggiungere meglio i clienti e adottare formule commerciali più orientate al cliente, secondo il modello “Amazon” che certamente costituisce un benchmark per migliorare l’esperienza di contatto del cliente nei confronti dell’azienda. E sicuramente questa è una strada da percorrere ed implementare sempre di più; ma anche nel campo dei processi produttivi l’informatizzazione può essere di grande aiuto, nell’acquisire maggiore flessibilità e adattamento alle mutate esigenze della clientela. Più in generale occorre ripensare il modello di business in termini innovativi e più efficaci in contesti quali le PMI italiane che dimostrano spesso genialità nella creazione del prodotto, e nella sua commercializzazione, ma mostrano talvolta limiti nel riuscire a governare efficacemente il business. La Gran Bretagna ha una struttura produttiva in parte simile alla nostra con una significativa componente di PMI, e secondo il Governo inglese, la produttività delle aziende non è mai aumentata dal 2008, con particolare riferimento alle PMI, perché poco dotate di mezzi finanziari, manageriali o produttivi; tale analisi combacia sostanzialmente con le analisi effettuate più volte dalla Banca d’Italia, con riferimento al nostro Paese. In UK si ritiene che nessuna ripresa economica possa scaturire se non si rigenera il motore produttivo in quelle componenti di più piccola dimensione e, spesso meno strutturate, e per questo il Governo britannico ha pensato di istituire un mini Master per piccoli e medi imprenditori denominato “Help to grow”, parzialmente finanziato dallo Stato. È una forma di aggiornamento professionale per imprenditori che spesso non hanno avuto una formazione accademica, e rappresenta un passo importante per la riconversione professionale e la preparazione per il business “dopo Covid” della digitalizzazione rampante e della concorrenza globale. Il corso durerà 12 settimane al costo super scontato di 750 sterline, ed avrà anche il supporto on line di un portale dedicato, e l’offerta di softwares aziendali a prezzi calmierati. Il progetto inglese cerca di risolvere un problema macroeconomico (la crescita economica attraverso l’aumento della produttività), intervenendo sulla microeconomia del modello di business a livello aziendale, e sarebbe auspicabile che anche il nostro Paese intraprendesse una strada analoga.

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