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Si dice che fa più rumore un albero che cade, piuttosto che una foresta che cresce.
Consentitemi di accodarmi alle tante celebrazioni per la vittoria calcistica dell’Italia ai campionati europei e per i successi olimpici, e a quel profumo di riscatto e di svolta che taluni attribuiscono a tali successi.
Abbiamo vinto i campionati europei, il nostro Berrettini, giovanissimo, è arrivato in finale a Wimbledon, e, perché no, i Manneskin hanno primeggiato all’Euro festival. E poi una serie di importanti successi ai Giochi Olimpici di Tokio che ci hanno consentito di tornare a casa con il più cospicuo medagliere di tutti i tempi.
Diamo sempre risalto all’albero che cade (e in effetti di alberi ne sono caduti diversi), per lasciarci andare all’autodenigrazione del nostro grande Paese, senza accorgerci della foresta che silenziosamente cresce, nel disinteresse generale.
Siamo da sempre ai vertici mondiali per le “tre F”, Fashion, Furniture & Food, per la genialità e la creatività dei nostri imprenditori, e udite, udite, ai vertici anche nel trovare soluzioni per la sostenibilità ambientale, il tema del momento.
Fanno certamente notizia i cassonetti stracolmi della nostra capitale, eppure, nel rispetto della media del pollo di Trilussa, l’Italia è ai vertici europei per il riciclaggio dei rifiuti con una percentuale del 77%, mentre la media europea è al 36% (la Germania al 43%, la Francia al 55%).
Si tratta di una mole di 58 milioni di tonnellate annue, fatta di carta, metalli, plastica, vetro, rifiuti organici, cui viene data una seconda vita, l’11% viene bruciato negli inceneritori per produrre energia, e solo una minima parte va in discarica.
È il concetto dell’economia circolare: le materie prime si trasformano in prodotti che, dopo l’uso, vengono nuovamente trasformati in materie prime, come nel ciclo naturale dove nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Questo consente di risparmiare 21 milioni di tonnellate di petrolio, e 58 milioni di tonnellate di anidride carbonica non vengono immesse nell’atmosfera; siamo il settimo paese al mondo per la produzione di energie alternative con 820.000 impianti.
Le aziende che operano nel settore sono 345.000, occupano quasi un milione di dipendenti e sono spesso dirette da giovani (il 47% ha meno di 35 anni).
Il segreto del successo sono i Consorzi obbligatori, costituiti per legge con lo scopo di raccogliere particolari materiali: ne esistono di tutti i tipi, il CONAI per gli imballaggi, il COREPLA per la plastica, il COMIECO per la carta, e tanti altri, e, pur avendo una finalità ambientale, contribuiscono al profitto di tutti gli aderenti, siano essi raccoglitori, riciclatori, distributori.
Ma il genio italico si manifesta nella ricerca delle soluzioni, e in questo c’è solo l’imbarazzo della scelta; grandi società come l’ENI hanno riconvertito le raffinerie di Venezia e Gela in bioraffinerie per il trattamento degli oli vegetali (gli oli utilizzati in mense e ristoranti) trasformandoli in biodiesel.
L’invenzione della plastica si deve al genio italico di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, che inventò il polipropilene, meglio conosciuto come “Moplen”, uno dei volani dello sviluppo economico del dopo guerra.
In Europa si disperde nell’ambiente quasi la metà della plastica prodotta, mentre nel resto del mondo la percentuale è dell’80%, e si calcola che ogni anno, attraverso il pesce che mangiamo o l’acqua che beviamo, ingurgitiamo microplastiche per un quantitativo pari a dieci carte di credito.
Quando ci si accorse che tale materiale era pressoché indistruttibile in natura, sempre in Italia, quasi 25 anni fa si pensò di ricavare la plastica dall’amido dei vegetali quali riso, mais, patate; si tratta del Mater Bi della Novamont che, data la sua origine, dopo l’uso si può trasformare in compost da usare come fertilizzante in agricoltura.
Restando nel campo della lavorazione di prodotti agricoli, risulta particolarmente interessante l’esperienza di CAVIRO, la più importante cooperativa vitivinicola italiana, che raccoglie il 10% della produzione nazionale di uva da 12.800 viticoltori, e produce 174 milioni di ettolitri di vino.
Nel suo stabilimento di Faenza, in Emilia-Romagna, non si spreca nulla, e tutti gli scarti di lavorazione vengono trasformati in prodotti farmaceutici, cosmetici, alimentari, e biometano in quantità tale da alimentare 18.000 autovetture per un anno.
Con le vinacce ed i resti di potature si produce poi energia termica ed elettrica tale da rendere lo stabilimento completamente autosufficiente; è inoltre allo studio la produzione di bioplastiche biodegradabili dai fanghi di depurazione.
Ma il genio italico si manifesta in tantissimi settori dell’economia circolare: a me sembra particolarmente interessante il caso della Fater di Pescara, che produce pannolini ed assorbenti per i più importanti marchi del mercato, utilizzando materie prime di altissima qualità, che devono essere in contatto con la pelle.
In Italia vengono smaltiti giornalmente dieci milioni di pannolini e assorbenti al giorno, un quantitativo certamente significativo e di difficile trattazione, anche per i materiali organici in essi contenuti.
Ebbene, in questa azienda sono riusciti a brevettare un macchinario che è in grado di lavare sterilizzare ed asciugare i pannolini, e separare le tre componenti della plastica esterna, del polimero assorbente e della cellulosa, trasformandole in granuli che possono essere riutilizzati per le produzioni più svariate.
L’azienda, che occupa 1.600 dipendenti ed ha due stabilimenti in Italia e tre all’estero, ha suscitato grande interesse sui mercati mondiali, a tal punto che la multinazionale americana Procter&Gamble ha deciso di entrare nel capitale della società.
Ma non è per niente facile fare azienda in Italia, e men che meno operare in un settore come quello del riciclaggio dei rifiuti, che spesso suscita l’interesse della criminalità organizzata.
Ed in effetti nel nostro Paese per poter commercializzare prodotti realizzati con rifiuti riciclati, è necessaria una legge specifica che autorizzi tale utilizzo, e la Fater ha portato avanti un contenzioso legale per anni in tal senso, sino ad accarezzare l’idea che fosse necessario trasferire la produzione all’estero, dove l’interesse era rilevante.
Ma per fortuna nel 2019 è arrivata la legge specifica che autorizza l’utilizzo dei suddetti materiali riciclati, tenendo presente che per la diffusione dell’economia circolare si renderà necessario un provvedimento autorizzativo ad hoc per ciascun materiale riciclato.
È un ossequio al nostro bizantinismo giuridico secondo cui è possibile fare solo quanto è autorizzato, laddove sarebbe molto più semplice ritenere autorizzato quanto non è vietato.
E c’è da augurarsi che un tale salto quantico si realizzi al più presto.
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