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mercoledì 11 novembre 2020

Torniamo alle origini

 di Lucio D'Auria

Secondo un articolo dell’Economist, ripreso dal Corriere della sera, l’Italia “è diventata irrilevante” a seguito del declino delle grandi aziende e della mancata ripresa successivamente alla crisi del 2008 – 2009.

Per effetto di tale crisi, solo 7 aziende italiane appaiono nell’elenco delle prime 1.000 società quotate al mondo, mentre una serie di importanti marchi italiani sono stati rilevati da aziende estere, e grandi aziende come Fiat, Ferrero e Campari hanno spostato la loro sede all’estero, con tutti i danni che tali decisioni comportano per la ricchezza del Paese.

Una cultura prevalente nel nostro Paese ha attribuito un'accezione negativa al ruolo dell’imprenditore, avvicinandolo talvolta a comportamenti negativi quali l’evasione fiscale, l’inquinamento, lo sfruttamento della forza lavoro, il raggiro dei consumatori.
E per combattere tali comportamenti, che magari si sono anche verificati in una certa misura, come accade per i comportamenti devianti presenti in qualsiasi altra compagine sociale, le aziende, negli ultimi decenni sono state destinatarie di una congerie di adempimenti e controlli, che rendono sempre più difficile il compito di chi vuole fare impresa.

E l’evoluzione del debito pubblico ha determinato anche lo sviluppo di una pressione fiscale sui redditi sia dei lavoratori che dell’impresa.

Non vorrei scomodare Adam Smith, nel dire che ancora oggi, la ricchezza delle nazioni dipende in massima parte dal lavoro produttivo in esse svolto, e dalla capacità produttiva di tale lavoro.

In Italia, per lo svolgimento degli adempimenti burocratici, il titolare di una piccola impresa impiega 45 giornate di lavoro, cui si aggiungono altre 28 giornate di suoi dipendenti, per un costo di 11.000 euro ad azienda, ed un costo totale di circa 5 miliardi per il Paese
Burocrazia – dal francese bureau (“ufficio”) connesso al greco krátos (“potere”), significa organizzazione delle persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità.

L’attuale accezione del termine è principalmente negativa, a causa di quelle che nel corso del XX secolo sono state definite da alcuni “conseguenze inattese” del fenomeno burocratico: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (il cosiddetto burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana. E allora dobbiamo chiederci se questo male italiano non sia da estirpare anche nella mentalità di chi adotta le norme solo per formalità e non entra nella sostanza delle azioni per risolvere concretamente i problemi.
 
Un aspirante imprenditore che volesse aprire un bar, deve affrontare sino a 71 adempimenti, interfacciandosi con 26 enti, con i quali entrare in contatto anche più volte, con una spesa che sfiora i 15.000 euro.
 
La spesa media per gli adempimenti su salute e sicurezza sul lavoro va da 1.854 euro per le gelaterie, considerate a basso rischio, a 2.119 euro per i bar, salendo a 4.414 per l’autoriparazione e addirittura a 5.784 euro per la falegnameria.

L’autorizzazione al posizionamento di cartelloni, insegne di esercizio e altri mezzi pubblicitari coinvolge fino a 12 enti, con il risultato che alcuni comuni si prendono oltre 60 giorni per rilasciare il nulla osta. Se l’insegna va collocata in un centro storico, poi, servono anche un nulla osta paesaggistico e un via libera della Polizia municipale.

In Italia, il totale degli oneri da adempimenti amministrativi derivanti dalla legislazione interna (ovvero nazionale o regionale) è stimato essere pari a circa 100 miliardi di euro l’anno, ovvero il 4,6% del PIL.

Inoltre, il tessuto economico nazionale è composto per la quasi totalità da piccole e medie imprese. Si contano infatti più di 4,5 milioni di PMI sul suolo italiano, di cui quasi l’88% risultano essere microimprese (meno di 5 dipendenti).

Data la dimensione delle imprese e la complessità di alcuni adempimenti amministrativi, la maggioranza delle microimprese italiane esternalizza lo svolgimento degli obblighi informativi alle associazioni di categoria, a studi contabili e/o legali o a consulenti esterni, sostenendo un costo aggiuntivo ai costi già gravosi della normale gestione d’azienda.

Allora torniamo alle origini, ai concetti di Adam Smith che risalgono alla pubblicazione del suo libro “La ricchezza delle Nazioni” avvenuta nel 1776:il lavoro produttivo crea ricchezza, e le aziende sono un motore generatore di ricchezza in quanto pagano i lavoratori, i fornitori e lo Stato attraverso la fiscalità.

E qualsiasi organismo, se collocato in un ambiente ostile, tende a morire, ovvero, se ci riesce, tende a spostarsi in un ambiente più favorevole.

Lo Stato non crea ricchezza, men che meno se stampa moneta, come sta accadendo in questi tempi, e la capitolazione delle economie socialiste nel secolo scorso ne è una indiscutibile testimonianza.

Al contrario lo Stato deve svolgere il suo ruolo di regolatore efficace, in maniera da creare e favorire lo sviluppo di un ambiente idoneo alla crescita del sistema economico, incoraggiando l’imprenditorialità di cui il nostro Paese è ricco, nonostante tutto.




Per saperne di più scrivetemi alucio.dauria@dbfinancialdvisors.it

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